Gli uomini non sono disturbati da degli eventi, ma dalla visione che ne hanno.

Secondo questo principio espresso da Epitteto, l’esperienza – in realtà – non provocherebbe alcuna reazione emotiva specifica; è invece il sistema di credenze dell’individuo a produrre la reazione. Come dire che vale di più credere che conoscere. Il tema della “reazione emotiva” è da cercare, quindi, nel modo di pensare di una persona, la cognizione che ognuno di noi ha e con la quale interpreta ciò che gli si presenta davanti.

Secondo lo psicologo Albert Ellis, la maggior parte dei problemi emotivi è dovuta quasi sempre ad un modo di pensare irrazionale, a tratti fuorviante e lontano dalla realtà. Secondo questo schema operativo, la nostra psiche reagirebbe in maniera negativa, tendendo a trarre conclusioni estreme e catastrofiche. Ho perso il lavoro–>non troverò mai più lavoro, ho rovinato l’auto–>non troverò mai più un veicolo del genere. 

La sfida, quindi, è quella di contrastare il pensiero irrazionale con quello razionale, creando l’effetto opposto perché fondato sulla tolleranza e sull’analisi dei fatti “documentabili“. Almeno a detta dei sostenitori del comportamento razionale emotivo. Questo non vuol dire che ad ogni accadimento negativo si debba far finta di nulla o girarsi dall’altra parte schivando il problema: il pensiero razionale accetta sentimenti di frustrazione, tristezza e colpa, ma con ragionevole moderazione. Ora, dove stia la ragionevolezza è un concetto piuttosto aleatorio e ognuno di noi avrà un suo “ragionometro“, ma il concetto è chiaro: credere è una distorsione, conoscere è un dato. 

Il pensiero razionale risulta equilibrato e fa bene al Sé, lascia uno spiraglio all’ottimismo, anche quando l’individuo è stremato. Conoscere, razionalmente, significa accettare ciò che è per quello che è, significa impegnarsi per cambiare ciò che non ci piace accettando, di nuovo, quelle che sono i successi, le conseguenze e gli insuccessi di un’avvenimento. 

Il pensiero irrazionale crea automatismi dannosi, abitudini seriali che ci offuscano lo sguardo e obnubilano il cervello, cancellando il raziocinio e legando la nostra interpretazione (risposta) all’evento stesso. Rischiamo di condurre argomentazioni prive di lucidità, dando per scontato un livello di astrazione molto basso. 

QUINDI CREDERE O CONOSCERE?

La nostra risposta emotiva dipende dal senso che attribuiamo a ciò che accade e che, a sua volta, è governato dal pensiero razionale o irrazionale. Sta a noi contestare la credenza con la conoscenza, l’irrazionale con il razionale. Mettere in discussione le nostre credenze non è semplice. E’ un processo complesso, che deve scavare all’interno di stratificazioni consolidate nel tempo: educazione, famiglia, lavoro, abitudini. Una delle difficoltà proprie del credere è che tende a perpetuarsi: nell’idea “non mi succederà mai nulla di buono” non c’è nessuna motivazione a cercare opportunità nelle quali possano capitare cose buone. La negatività chiama negatività, è un circolo difficile da superare, ma non impossibile. 

Siamo noi a costruire la nostra credenza e la nostra realtà, nonostante cultura, scolarizzazione e vita sociale giochino un ruolo importante impedendoci spesso di razionalizzare il nostro pensiero. Come fare? Con l’azione, mettendo in atto un approccio attivo e allenandosi al positivo. Ogni giorno, iniziando dal piccolo, concedendosi degli spazi emotivi per ricostruire la propria autostima. Conoscendo sempre di più e “credendo” sempre di meno. 

I migliori anni della nostra vita sono quelli in cui decidiamo che i nostri problemi sono nostri. Siamo noi a condurre il nostro destino, nessuna credenza.

 

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