E’ difficile analizzare con razionalità l’origine delle passioni. Da dove arrivano certi impulsi? Come mai amiamo la fotografia? Perché ci piace suonare? Come mai il nuoto o il golf? E ancora, perché proprio la letteratura del ‘300 o i motori? Spesso ci capita di non dare risposte – e forse nemmeno a porci queste domande – o di dare risposte sommarie e superficiali, senza analizzare con attenzione ciò che ci ha portati dove siamo.

Uno dei ricordi più lontani che ho – e il primo viaggio in aereo – nella mia memoria è legato alla Libia. Insieme alla mia famiglia ho vissuto lì per un po’, ero molto piccolo, non conoscevo bene l’italiano, ma parlottavo l’arabo. La mia prima “vera” esperienza al mare fu proprio sulle spiagge di Al Zuwarah, a circa cento chilometri da Tripoli, dove vive tuttora parte della famiglia di mio padre. Mi piaceva vivere lì. Non c’erano molte regole e io potevo gironzolare scalzo in piena libertà, tra le case berbere e i profumi delle spezie, circondato dall’affetto di amici, parenti e in particolare di mia cugina Hamahl.

Aveva un nome maschile, ma era una ragazzina dolcissima, forte e innamorata di me. La amavo profondamente. Morì di tumore circa 17 anni fa e ne soffrii molto. Così come soffrii per la perdita dei nonni.

Ero molto legato a mio nonno libico, dal quale ho ereditato lo spirito imprenditoriale. Aveva una piccola bottega di fronte al mercato stabile della città e al suo interno aveva di tutto! Una specie di paese dei balocchi. Era un mondo a sé…quando mi portava con lui ero al settimo cielo; potevo toccare tutto, fare i conti, scrivere (se così si può dire per un bambino di tre o quattro anni), giocare, mangiare dolciumi. Ero il primo nipote ed era orgoglioso.

Mi portava con sé nella sua terra arsa piena di ulivi secolari. Era la sua fuga dalla realtà; restavamo ore in questo campo di alberi elegantissimi dove  c’era un piccolo rudere che ci riparava dal sole e dal caldo del deserto; ci si poteva rinfrescare con l’acqua che aveva le sue origini in una falda freatica proprio sotto quella costruzione. In quella terra così calda e magnifica, forse, nacque proprio lì la mia passione per l’esplorazione urbana (URBEX). Forse quel rudere, così strano, distrutto, ma pieno di “attenzioni” nei nostri confronti, ha fatto sì che mi entrasse nella testa (e nel cuore), per poi sedimentarsi ed esplodere in passione negli anni a venire.

L’ORIGINE DELLE PASSIONI

I momenti di gioia sono lontani e ora quella terra che ho tanto amato e dove sono cresciuto è il palcoscenico di una delle atrocità più feroci del nostro tempo. Su quella spiaggia non ci sono ombrelloni e nemmeno lettini. Solo baracche che cadono a pezzi e desolazione. Ci sono solo cartelli bianchi e instabili con la scritta: “Vietato costruire capanne con strutture metalliche e di legno”. Non è una raccomandazione legata alla sicurezza, ma una delle tante umiliazioni che una parte sempre più cospicua della popolazione africana subisce, costretta da decenni a scegliere questa lingua di terra infernale per raggiungere l’Italia e l’Europa.

Quella terra, una volta colonia italiana e “scatolone di sabbia” di Giolittiana memoria, è ora il maggior porto di traffico umano dell’Africa. Un primato che mi addolora ogni giorno di più e che mi fa sentire impotente e inadeguato. Se penso che mio nonno ha aiutato decine di persone, compresi italiani, a trovare un lavoro, un alloggio, una vita nella sua città, e adesso quella sua stessa città campa sulla pelle di questi uomini, provo una grande rabbia e fatico a trattenere le lacrime.

Anche per questo credo che la fotografia mi abbia avvicinato sia all’essere umano sia alle costruzioni da esso erette. Abbiamo bisogno di aiutarci, di vivere in armonia, di amarci, amare la dimora, in quanto rifugio, che ci ospita. Fotografare luoghi abbandonati è un viaggio: nella storia, nella fantasia, nella ricerca dell’io. Nell’antichità il viaggio significava purificazione interiore, combattimento; era un continuo cimentarsi con pericoli, conquiste e sconfitte. L’esplorazione urbana attinge a piene mani da questo paradigma, e gli urbexer (i fotografi che praticano questa disciplina), anche se non pienamente consapevoli, sono animati proprio dall’emulazione di queste gesta. 

Transitare da una passione ad un altra – così come da un luogo all’altro – permette a tutti noi di riconoscersi un’appartenenza globale e un’identità personale. 

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