Tristezza…si, ma a cosa serve? Serve davvero? Possiamo esserne immuni? Quante volte veniamo colti da una più o meno immotivata sensazione di tristezza? Quanto vorremmo che passasse nel giro di pochi istanti! Così, senza pensarci troppo, cerchiamo di superare il momento cercando di allontanare con tutte le nostre forze quella terribile sensazione di mestizia e vuoto interiore. Ma non sappiamo che darci il permesso di essere tristi è fondamentale per il nostro benessere psicofisico.
Ricordo la sensazione di tristezza e frustrazione quando mi trovai alle Lofoten e vidi questo scenario…”Ma come!? Tutti arrivano qui, paesaggi mozzafiato, le casette rosse, tutto magico con luci incredibili e poi, arrivo io ed è una schifezza del genere?” Vabbè, faremo di necessità virtù mi sono detto.
A COSA SERVE LA TRISTEZZA?
Io sono convinto che se non avessimo momenti di tristezza staremmo bene comunque ma, ahimè, non essendo immuni dai dispiaceri e dalle delusioni, dobbiamo necessariamente fare i conti con questi sentimenti. E allora diventa quanto mai necessario trovare – dove possibile – se non il lato positivo, l’insegnamento.
Partendo dal presupposto che deve esserci un motivo per essere tristi (altrimenti diventerebbe complesso analizzare la situazione), avere il “controllo” di questa emozione, come delle altre, avrebbe effetti positivi sul nostro benessere, e questo sarebbe confermato da uno studio del 2005 intitolato “The cognitive control of emotion” realizzato dallo psicologo Kevin Ochsner e il filosofo esperto di comportamento James J. Gross, pubblicato sull’autorevole sito dell’NCBI.
Se vogliamo davvero capire l’utilità della tristezza, dobbiamo anzitutto comprendere di cosa si tratta, che cos’è realmente? L’origine della parola può esserci di grande aiuto: la parola triste potrebbe derivare dal latino tristem che sembrerebbe trovare la stessa radice in “tèrere” che significa consumare, rodere. Altri studi riconducono l’origine della parola triste (tristo) con la parola sanscrita trsta che significa brusco, ruvido.
Non si può essere profondamente sensibili in questo mondo senza essere molto spesso tristi.
La tristezza sembra riportarci ad un vissuto “scomodo” oscuro, a tratti brusco e lacerante che risulta molto difficile da comprendere. La tristezza rappresenta, fin dalla nascita, un sentimento primario e ancestrale, sempre pronto a ripresentarsi nei momenti più…giusti. La sua funzione è quella allertarci, suggerendo il ritiro da ciò che l’ha provocata, un ritiro difensivo e protettivo.
Lo stesso Charles Robert Darwin, in epoche in cui ancora dovevano essere messe a punto teorie psicologiche complesse, aveva sottolineato il valore adattivo delle emozioni, tristezza compresa. Le emozioni non sono impeti fini a se stessi, ma rappresentano i preziosi segnali che ci aiutano a comprendere ciò che sta succedendo aiutandoci a capire come modificare il nostro comportamento per adattarci ai cambiamenti dell’ambiente, sia esso famigliare, lavorativo o personale.
Da adulti, emozioni sgradevoli come la tristezza possono essere ancora estremamente utili per la nostra salute psicologica a patto che impariamo a capirle e a gestirle invece di venirne malamente surclassati. Gestire le emozioni, soprattutto negative, è ciò che permette di sopportare le passate tristezze, la solitudine e le perdita; comprendere ed accettare le proprie emozioni ci permette di entrare in empatia con quelle del nostro interlocutore.
Sintetizzando in modo un po’ estremo, essere tristi vuol dire sentirsi privi di qualcosa o di qualcuno, vivere una condizione di mancanza. Che sia per la perdita di una relazione, o perché abbiamo smarrito un oggetto al quale eravamo legati, o perché stiamo lasciando un lavoro o un’abitazione, stiamo vivendo un sentimento di perdita. Poter capire e, soprattutto, tollerare la tristezza è quindi un’occasione che può rivelarsi preziosa.
Keypoint: è dalla mancanza che nasce il bisogno e il desiderio per qualcosa di nuovo.