solitudine

#125. LA SOLITUDINE DI UN UOMO GLOBALE

Quando pensiamo alla nostra situazione di “persone globali“, costantemente interconnesse e piene di relazioni reali e virtuali (queste ultime sempre più numerose), fatichiamo a capire perché, in realtà, abbiamo momenti un cui ci sentiamo spauriti, in solitudine e isolati. 

Le politiche liberiste che quasi in tutto il mondo occidentale hanno preso sempre più piede, pongono le condizioni per la sfaldamento del tessuto sociale, economico e antropologico, posizionando al centro di una dialettica ormai a senso unico, l’uomo come essere singolo, esaltandone l’individualità e allontanando sempre più il concetto di impegno collettivo. Negli ultimi anni si sono radicate idee di individualismo ed egoismo che, allargandosi ad ogni settore della nostra vita, ci portano a ragionare sempre di più come “unici” e mai come “insieme“.

Una simile “libertà” è una realtà illusoria perché sottostà a modelli e a consumi imposti dal mercato, avendo come conseguenza l’aumento dell’instabilità della massa e, cosa ancor più grave, il suo indebolimento, con la paralisi della politica diventata sempre più locale ed inutile. Tale ingannevole modalità è basata sull’assenza di limiti, sul disinteresse del bene comune inteso, anche, come bene collettivo su larga scala. E più la globalizzazione – della quale sarei sostenitore – si allontanerà dalla collettività e più l’individuo si sentirà in solitudine.

Queste, insieme ad una grande confusione degli ideali e di una tecnologia sempre più radicale e radicata, caratterizzano la tormentata vita dell’uomo occidentale, ormai avulso da tutto ciò che lo circonda, pur non avendolo scelto. Quasi tutto quello che ci “appartiene” – idee comprese – ci è stato imposto, dapprima con abile lavaggio del cervello costante e reiterato, successivamente con un attenta distorsione della realtà, fino ad arrivare al controllo del mercato tramite algoritmi. 

Dal punto di vista politico non si sta facendo tanto, e a poco servono le tante e inutili parole spese sulla risoluzione di problemi che, comunque, si concentrano sempre e solo sul singolo e mai sulla comunità. Sì è varo, si parla di comunità, ma come insieme di singole entità che vanno a formare un insieme di individui. Ci si dovrebbe, invece, concentrare sulla “piazza“, laddove gioie e dolori possono essere condivise, dove non si sceglie con chi stare a priori, guardando una foto o leggendo pochi dati su di un profilo che di reale potrebbe avere ben poco, ma avendo scontri dialettici, confronti e contraddittori senza l’intervento di moderatori fisici o virtuali. I luoghi fisici, dove donne e uomini potranno ricominciare ad interrogarsi, a chiedere, a condividere le proprie sofferenze che, magicamente, troveranno spazio. Non è un caso che in ospedale, stringiamo rapporti forti, cadono le barriere di qualsivoglia natura e, condividendo i nostri dolori, entriamo in un’empatia armonica, quasi surreale. 

Keypoint: ritrovando il cortile, la piazza, i musei e i teatri come luoghi di aggregazione e non solo di facciata, l’uomo occidentale avrà più facilità nel guarire da questa “solitudine” ritrovandosi a dover parlare e non a dover “postare”. 

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