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#289. SIAMO QUELLO CHE…VENDIAMO

Quando Bauman introdusse la sua riflessione della modernità liquida, fu una rivoluzione. In ambito sociologico è considerata dalla comunità di sociologi, psicologi e studiosi di neuroscienze, un contributo unico e, proprio nell’ambito della teorizzazione della modernità liquida, Bauman introduce un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario: “siamo ciò che compriamo“. 

Oggi però, con l’avanzata prepotente della pubblicazione online di tutto quello che facciamo, pensiamo, realizziamo, si può estendere quel concetto ad una proiezione di noi ancor più orientata all’esterno. Abbiamo iniziato l’era della vendita di noi stessi, ma non mi riferisco a quel sano paradigma – base del personal branding – che “costringeva” ogni lavoratore a dare il meglio per vendersi, appunto, in un determinato ambito professionale. Ora ci stiamo (s)vendendo al peggior offerente, per una manciata di like, di cuori. Per quei piccoli 01 che, in codice binario, non sono altro che un acceso e spento. 

Cosa accendono? Accendono i nostri ricettori della felicità, dell’ansia…in poche parole, quei piccoli pollici e quegli innocui cuoricini, vincolano in modo inesorabile le nostre scelte, i nostri gusti e il nostro modo di porci che, ora, è diventato un atto di vendita a tutti gli effetti. Siamo prostitute del digitale. Nessuno escluso. 

Se diamo un’occhiata veloce al nostro telefono, se non facciamo pulizia in maniera sistematica (lo so che non lo fate e che vi continua a dire “dispositivo pieno, liberare spazio” :)), ci accorgeremo che abbiamo decine di fotografie dello stesso soggetto, noi, nella stessa posizione che cambia di pochi millimetri. Cerchiamo l’inquadratura giusta, la luce migliore, lo sguardo meno demente…tutto questo non si declina esclusivamente nel voler apparire “nel migliore dei modi“, bensì rispecchia la volontà del volersi vendere nel mercato globale, come fossimo un profumo, un barretta di cioccolato, un’auto sportiva.

Sono quello che consumo

La centrale importanza del consumo nella costruzione di una propria identità va ben oltre la mera azione dell’acquisto di beni. Perdendo la stabilità – tutt’altro che positiva, sia chiaro – di una società fatta di solido illuminismo, dove le certezze erano date dalle istituzioni, dallo stato nazionale e dalla comunità scientifica, vaghiamo tra mondi reali e virtuali in cerca di una risposta alternativa che, erroneamente, crediamo possa provenire da nuove figure quali life coach, psicanalisti, sessuologi, sedicenti guru e venditori di marketing a tutti i costi.

Rischiamo, ogni volta che ci “pubblichiamo” o ci raccontiamo, di non essere obiettivi; cerchiamo di vendere non la nostra persona vera, ma l’idea di come vorremmo essere percepiti. Stiamo rischiando di confonderci con i beni di consumo e, in base alla nostra classe di appartenenza, mirare – addirittura – ad un determinato target. Rischiamo di diventare una cineseria di noi stessi.  

Mai, come ora, il “problema” di chi siamo, dove andiamo e cosa faremo, è così palese in ogni aspetto della nostra vita: sociale, economica e professionale. Siamo pervasi, in modo trasversale, da insicurezza e precarietà…non si spiegherebbe altrimenti il proliferare di figure “aiutanti” come i già ampiamente citati guru. 

La mia è un’analisi che definire superficiale è un complimento, ma credo che sia un buon punto di partenza per cercare, quanto meno, di capire quale direzione sarebbe opportuno NON prendere. Limitare la vendita online di noi stessi, ad esempio, potrebbe dare qualche frutto. Ormai ci siamo dentro e uscirne sarebbe difficile e molto probabilmente controproducente, ma è possibile limitare i danni, sopratutto quelli che potrebbero intaccare la nostra già claudicante personalità. 

Keypoint: siamo quello che…vendiamo.

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