fotogiornalismo

#166. IL RUOLO ETICO DEL FOTOGIORNALISMO

Fin dalla sua “scoperta” su larga scala, la fotografia è stata oggetto di grandi diatribe e discussioni. Negli anni ’30, durante la guerra, Cartier-Bresson disse: “Il mondo sta andando a pezzi a causa della guerra, e persone come Adams e Weston fotografano i sassi!” Ovviamente il riferimento era ai fotografi paesaggisti ai quali sembrava non interessasse affatto che il mondo fosse piegato da un conflitto su scala globale. 

Il fotogiornalismo è, per alcuni fotografi, ciò che più si avvicina all’ideale di fotografia, in particolare per il suo ruolo etico e “sincero”. La fotografia che arriva dai fronti è quella che, nel modo più vero e crudo possibile, ci ha raccontato gli scontri, le battaglie, le morti, le speranze; e non è un caso se in quasi tutti i concorsi fotografici di un certo livello, sul podio ci sia sempre una fotografia di guerra o delle conseguenze della stessa. 

Potendo sostituire molte parole, le fotografie sono un documento straordinario per un articolo, un libro, la Storia. E in particolare il reportage umano, che trova la sua massima espressione nei così detti “fotografi impegnati” (Cornell Capa, dan Weiner, Sebastiao Salgado, Steve McCurry, per citarne alcuni), è un chiaro segnale di come i fotografi del passato e del presente, siano in buona sostanza attenti ai diritti umani e contro i poteri forti. Un movimento più che pacifico e non organizzato, che cerca di non piegarsi ad un certo establishment che ne vorrebbe impedire l’attività. 

La quinta essenza del fotogiornalismo – e che dovrebbe essere l’essenza di ogni denuncia – è l’indipendenza; la libertà di movimento e il potere di rappresentare al meglio a quali limiti si è spinta la condizione umana, e con essa la dignità. Molti fotografi mostrano attraverso i loro scatti, quanto sia sbagliata la guerra, quanto l’uomo possa essere crudele con i suoi simili. non sappiamo se se la rappresentazione fotografica abbia mai mosso realmente le coscienze, ma tant’è. Aumentare la consapevolezza è una cosa, provocare un’azione che ponga fine alle sofferenze è tutt’altra. 

“Il fallimento della fotografia nello spiegare le grandi questioni pubbliche è sempre più evidente…Molti dei temi più importanti non possono essere fotografati.”

Così scriveva John Szarkowski a proposito della visione dell’opinione pubblica, facendo riferimento al fatto che la massa non “vede” più. Come lui, anche molti redattori si accorgono che, in realtà, l’opinione pubblica è certamente toccata da immagini e reportage, ma subisce una sorta di “anestetizzazione” nei confronti di scene scioccanti. Bambini feriti, donne e uomini uccisi indignano, ma non smuovono. I fotografi documentano guerre da quando Leica ha messo sul mercato la sua 35mm, e parliamo di più di 80 anni, ma non solo continuiamo a fare guerre sempre più truci e folli, ma ci siamo anche “abituati” al passaggio veloce di immagini e sequenze, durante una normale giornata di lavoro, o a cena con la famiglia. Mangiamo pollo arrosto, mentre in luoghi dove andiamo in vacanza si sparano…L’opinione pubblica americana ebbe un forte sussulto dopo aver visto le foto dei massacri in Vietnam, ma fu un fuoco di paglia. 

Sembra che il fotogiornalismo stia attraversando una grande crisi, soprattutto in termini etici ed espressivi: in una nota Neil Burges, ex responsabile Magnum, scrisse che il fotogiornalismo indipendente, quello degli anni 30/60 va via via scomparendo, dando spazio ad una sorta di grande laboratorio finanziato dalle ONG che, in qualche modo, devono farsi pubblicità, dagli editori per la stesura di libri, da fondazioni per organizzare mostre. Non ci sono riviste, quotidiani, periodici che investono in fotoreportage. Investono in immagini, ma non in verità.

Le foto dei bambini vittime di guerra si confondano con le foto dei nostri selfie, dei nostri gatti, della nostra superficialità; abbiamo bisogno di più progetti e meno immagini.

Keypoint: l‘anestetico che ci è stato propinato negli ultimi cinquant’anni sta funzionando.

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